Festival Giustizia penale / Canzio: “«La riforma Cartabia non solo era fondamentale, ma necessaria». Mori: “Non mi fermo qui”

 Festival Giustizia penale / Canzio: “«La riforma Cartabia non solo era fondamentale, ma necessaria». Mori: “Non mi fermo qui”

Giovanni Canzio al Festival della Giustizia penalwe

Il primo Presidente emerito della Corte di Cassazione Giovanni Canzio ospite del Festival della Giustizia Penale parla di organizzazione e giurisdizione

Giovanni Canzio al Festival della Giustizia penalwe

«La domanda che i giuristi si pongono è se fosse effettivamente necessaria una riforma del sistema della giustizia penale e se questa, una volta introdotta, potesse rispondere a sua volta a un sistema di legalità, di funzione cognitiva della giurisdizione e di correttezza deontologica». È quanto dichiarato in apertura del suo intervento da Giovanni Canzio, primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, ospite della seconda giornata del Festival della Giustizia Penale a Modena: «La riforma era fondamentale, soprattutto a fronte della caduta verticale della giurisdizione penale cui stavamo assistendo».
Si legge spesso che in Italia i processi sono molto più lunghi che nei restanti Paesi europei. Sul tema, Canzio non ha dubbi: «Esiste un effetto perverso della scarsa considerazione del fattore temporale. Senza esserne consapevoli, la giustizia penale ha divorato voracemente vite e beni delle persone, anche per decenni. Non bisogna mai dimenticare che il tempo e la sua modulazione non sono indifferenti alla giustizia e soprattutto alla sua qualità. La ragionevole durata è un valore costituzionale e anche segnalibro della salute dello stato di diritto di un paese. Più lento è il progredire del processo verso la verità, più l’attenzione viene spostata su quello che è un esito che sarà assolutamente provvisorio, un’ipotesi, una prospettiva, che però poi alla fine non c’è mai».
Della riforma Canzio sottolinea il pregio principale: «Ha il merito di aver notato come l’inefficienza del sistema fosse anche legata all’organizzazione, all’economia, al dislocamento e all’eventuale implementazione delle risorse. Vi erano dei deficit profondi nella non managerialità e nella scarsità di queste. L’inedito della riforma Cartabia consiste nell’investimento durevole, cadenzato e massiccio di risorse, che si concretizza in 4 miliardi di euro nell’ambito della giustizia che dovrebbero rivitalizzare la digitalizzazione, il processo penale telematico, ma anche l’intelligenza artificiale – ambito che richiede nuove figure professionali con una propensione all’open mind. Finalmente la riforma non è più a costo zero. Il report semestrale della Commissione europea e del Ministero dell’economia consente di monitorare tutto quello che si fa. L’obiettivo è di ridurre entro la fine del 2026 del 25% il tempo di durata ragionevole. I dati dimostrano che nel 2022 l’effetto è stato dirompente, con un miglioramento della disposition time del 10%. Con questi ritmi, figli di scelte virtuose, l’obiettivo del 2026 potrebbe essere anticipato».

Mori al Festival Giustizia Penale per la prima volta dopo l’assoluzione: «Non mi fermo qui»

«Non mi fermo qua, voglio sostenere e testimoniare quello che è l’essenza della trattativa Stato-mafia che ritengo ancora attuale, come era attuale al tempo di Falcine e Borsellino. Voglio proseguire perché ritengo che non sia più un problema giudiziario ma è ancora e molto evidentemente un problema politico».
Il generale Mario Mori, già comandante dei Ros, dopo 13 anni di processi e vessazioni è stato assolto in Cassazione nel procedimento che lo vedeva implicato in merito alla cosiddetta trattativa Stato mafia, ed è stato dunque ritenuto del tutto estraneo a ogni trattativa illecita.
Per la prima volta dall’assoluzione, è intervenuto pubblicamente al Festival della Giustizia Penale ripercorrendo, in una lunga e appassionata disanima, il percorso che lo portò alla cattura di Totò Riina, il rapporto anche personale con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e, naturalmente, i suoi procedimenti processuali.
Riguardo ai suoi rapporti con Vito Ciancimino ha spiegato: «Ciancimino non era uomo d’onore, anche se conosceva benissimo l’ambiente mafioso e come muoversi al suo interno. Dopo la morte di Falcone (e quando si prospettava quella di Borsellino) l’ho conosciuto, l’ho trattato bene per avere un confidente e feci due iniziative innovative: provare ad alzare il livello dei nostri contatti con la controparte e mandare quello che ritenevo il mio ufficiale più efficiente (Ultimo) con 15 uomini a Palermo, dove gli dissi di non frequentare le caserme, ma di trovare e catturare Riina. Come diceva Dalla Chiesa quando si trovano persone di queste organizzazioni non si arrestano, ma si seguono: se non si capisce questo non si può fare alta polizia». Mori ha proseguito spiegando i motivi di questo rapporto, che lo ha portato a processo, sottolineando la trasparenza e la linearità dei loro contatti, una linea riconosciuta sia in Appello che in Cassazione.
Sui suoi rapporti con Falcone e Borsellino, Mori ha raccontato della collaborazione per l’avvio dell’indagine “mafia-appalti”, e delle loro personalità, tanto opposte quanto complementari. Dopo le loro morti, ha raccontato: «In quel periodo non solo la politica scomparve, ma anche le gerarchie delle forze di polizia non dissero una parola. La nostra reazione fu “vabbè siamo soli e allora combattiamo come sappiamo fare”. Quando mi sono sentito solo, Borsellino e Falcone mi hanno dato la forza di andare avanti. Lo dovevo per dignità professionale. Lo dovevo all’amico Falcone, a Paolo Borsellino, a tutti i nostri morti. Lo dovevo a loro».

Riguardo alla riapertura delle indagini sulle stragi del ‘92 e in particolare sulla possibile collaborazione tra mafia e ndrangheta controllata dalla massoneria, il generale spiega: «La mafia militare, quella di quei tempi, non accettava collaborazioni, accettava solo la sudditanza da parte degli altri e pertanto non credo che possa essere coinvolto un ente superiore. In generale l’importante è sempre partire dai fatti per dimostrare i teoremi, e non viceversa. È così che faceva Falcone». In chiusura una nota di speranza circa l’arresto di Matteo Messina Denaro, per mano di un collega di Mori, comandante dei Ros, seguendo uno schema alla vecchia maniera: «un’ottima operazione investigativa» l’ha definita il generale.

Carcere & lavoro: Palma e Treu al Festival Giustizia Penale

Palma: “Si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti”

Il Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma ospite a Modena per il Festival della Giustizia Penale parla di lavoro e carcere, insieme a lui il Senatore ed ex Presidente del CNEL Tiziano Treu
«La vita in carcere deve essere il più simile possibile agli aspetti positivi della vita in libertà. Questo aspetto si collega necessariamente a due concetti: ai diritti del lavoro e alla tipologia di lavoro che viene offerta in carcere, un luogo in cui ancora oggi le tecnologie non vengono introdotte e questo, nel mondo in cui viviamo, rende difficile il successivo reinserimento in libertà». È quanto dichiara Mauro Palma, Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, in apertura della seconda giornata del Festival della Giustizia Penale a Modena.
«Bisogna considerare la composizione sociale delle nostre carceri, facendo riferimento ai numeri. Considerando le condanne fino a tre anni, ci sono 1502 persone in carcere perché condannate a meno di 1 anno; 2790 tra 1 e 2 anni; 4327 tra 2 e 3 anni. La somma è di 8619. Prendendo in esame invece i dati sul livello di istruzione, circa 6200 persone non hanno completato neanche la licenza media, mentre 850 sono totalmente analfabeti. È chiaro che bisogna intervenire su questi aspetti, perché spesso queste persone escono dal carcere trovandosi nella stessa identica situazione. Bisogna far capire ai detenuti il valore della norma».
Continua Palma: «C’è mistificazione sia del termine lavoro, come per l’espressione ‘casa di lavoro’, che dei numeri – basti pensare alle buste paga, in cui è molto comune che tutte e tre le tipologie di lavoro esistenti in carcere non siano effettivamente pagate con la cifra inserita. Spesso inoltre vengono svolte attività più vicine al ‘consumare il tempo’ piuttosto che legate a un percorso formativo che sia spendibile anche al di fuori dei luoghi di detenzione. Se parliamo di lavoro, non possiamo non citare la Costituzione che deve tutelarne tutte le forme. Non solo con l’articolo 27, ma anche con il primo comma dell’articolo 35».

Treu: “Se i detenuti vengono correttamente formati, in accordo con le imprese e la giustizia, vinciamo tutti”
«Il vero problema da affrontare è come incentivare le imprese a rendere il lavoro nelle carceri il più vicino possibile ai principi della Costituzione e delle regole europee. Finché ho presieduto il CNEL, ho avviato un progetto – in accordo con il Ministero della finanza e della giustizia – che affronti questo scoglio, che attivi riflessioni stabili e soprattutto che coinvolga le parti sociali, così da diffondere la conoscenza del problema e offrire soluzioni. Questi temi non riguardano solo il diritto, gli avvocati e i giuristi, le imprese, ma anche le parti sociali. I sindacati, sia quelli al di fuori delle strutture sia quelli che rappresentano i dipendenti delle carceri, devono essere coinvolti».
Continua Treu: «È indispensabile che la giurisprudenza e il diritto del lavoro entrino in carcere. Bisogna pensare a come organizzare i luoghi di detenzione e quali lavori insegnare; i lavori tradizionalmente svolti dentro le carceri sono più legati ad attività degradanti che non al lavoro vero. Ricordiamo che non è lo stesso lavorare dentro il carcere o in libertà. Bisogna mobilitare i territori che hanno le risorse adatte per il reinserimento dei soggetti dopo lo sconto di pena».
Dinanzi al problema su quali lavori dovrebbero essere insegnati e alla formazione dei detenuti, Treu ha le idee chiare: «Sono due problemi da risolvere. Il lavoro per i carcerati non può limitarsi a quello, per esempio, della ristorazione, dei servizi domestici o dei servizi alla persona; bisognerebbe spingere verso le imprese dell’ambito tecnologico, ovviamente con i dovuti incentivi in termini di accoglienza e comprensione. Il secondo aspetto, è da risolvere ancora prima: è molto complesso formare persone analfabete, ma è necessario renderle pronte all’esterno, in modo che vengano riconosciute e accolte poi nelle imprese e nel mondo del lavoro. Vincere questa sfida, comporterebbe un guadagno per tutti: per i giudici e gli avvocati, per i soggetti che tornano in libertà dopo aver scontato la propria pena e anche per le imprese, che investono non solo nelle persone ma anche nella comunità».

Altri Articoli che potrebbero interessarti

error: Content is protected !!